Domenica scorsa, immersione nel paesaggio forestale di Roccantica (RI), con visita al borgo antico e anche a quello di Catino, insieme a 8 camminatori, dei quali alcuni già, ormai, affezionati partecipanti delle escursioni di immersioni nel paesaggio.
Questo percorso è tra quelli che preferisco, perché rappresenta in pieno il concetto di scoperta proprio delle nostre Immersioni… Ricordate la frase di Proust? “L'unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell'avere nuovi occhi”. In fondo solo di un bosco si tratta, ma quanti piccoli segreti si nascondono a chi non ha occhi per osservare, ma solo gambe per camminare?
Ma andiamo con ordine. Roccantica è un borgo la cui storia è permeata dall’influenza della Chiesa… E quale non lo è, in Sabina? - Direte voi - Si, ma qui lo si può dire a maggior ragione, dato che il Castello fu da subito, intorno all’anno mille, sotto il controllo del Papa, Niccolo II, per proteggere il quale i roccolani hanno subito la decimazione ad opera dei soldati affiliati ai Crescenzi, a quel tempo rivali del Papa nella corsa al Soglio.
Ad agosto a Roccantica si celebra una festa medievale che rievoca proprio questo episodio drammatico. Prima di questa svolta a favore della Camera Apostolica, Roccantica, come tanti castelli Sabini, era sotto il controllo della, Abbazia di Farfa, che era, si, un’entità religiosa, ma in posizione di rivalità, rispetto al papato, perché sotto il controllo diretto dell’Imperatore.
La nostra passeggiata inizia proprio dalla piazzetta della Chiesa di San Valentino, la più antica di Roccantica (e scusate il gioco di parole!), acquisita ben prima dell’anno mille (VIII – IX sec.) dall’Abbazia di Farfa ed esistente prima ancora della costruzione della Rocca: la “Rocca de Antiquo”. Sarà un caso ma, di fianco alla chiesa, o meglio, a quel che rimane di essa: il campanile massiccio a pianta quadrata e una parete sul lato corto, oggi monumento ai caduti, troviamo un esemplare di Albero dei Rosari, (Melia azeradach L.) pianta utilizzata in passato per fabbricare i rosari, con i semi legnosi e rotondi della pianta. Mi piace pensare che anche gli alberi ci ricordano il legame tra Roccantica e la religiosità dei suoi abitanti. La cosa curiosa e un po’ inquietante è che questa pianta è estremamente tossica per l’uomo!
Addentrandoci nel bosco, scopriamo l’ombrosa macchia mediterranea intorno a Roccantica: la foresta, a dominanza di lecci (Quercus Ilex L.), che qui è soprendentemente ricca di Alberi di Corbezzolo, (Arbutus unedo L.), con un insolito portamento ad alto fusto. Il sentiero è tappezzato di bacche rosse di corbezzolo e noi, non appena troviamo qualche cespuglio basso con i frutti, non manchiamo di far notevoli saccheggi e scorpacciate! Ammiriamo i tronchi del corbezzolo, che sembra crescano avvitandosi su se stessi, mentre le loro corteccie, ricche di tannini e usate un tempo per la concia delle pelli, si sfaldano verticalmente a formare delle scagliette. La bacca del corbezzolo, oltre a essere buonissima, è ricca di vitamina C, ci si fanno liquori, marmellate, canditi, bibite fermentate, ecc., inoltre il corbezzolo è definito l’albero d’Italia! Infatti venne evocato nell’Ottocento a simbolo dell’unità nazionale per il fatto che fiori bianchi, foglie verdi e frutti rossi persistono contemporaneamente sulla pianta (noi veramente abbiamo visto solo i frutti, forse eravamo troppo impegnati a mangiarceli! :-)
Le piante di corbezzolo, tra le altre cose, ci introducono al mondo dei carbonai, dato che il loro legno era adattissimo alla produzione di carbone. Camminando sul sentiero incontriamo diverse tipiche piazzole con la terra ancora nera di carbone… Ed ecco che agli esploratori del bosco viene chiaro che non ci troviamo in un paesaggio naturale, ma in un paesaggio bioculturale, il bosco e le sue essenze iniziano a riecheggiare quel brulicare di lavoratori, boscaioli, contadini, mercanti, pellegrini e viandanti che fino a 70/100 anni fa circa animavano queste lande ora silenziose. Per inciso, non dimentichiamoci che ci troviamo nei pressi di una via di comunicazione importantissima dal punto di vista commerciale e geografico, che collegava le colline della Sabina Tiberina al reatino, con conseguente traffico di pellegrini, mercanti, viandanti, eserciti, ecc.
Tornando alla civiltà dei carbonai, ci soffermiamo a ricordare le capanne che costruivano per abitare il bosco nell’arco della stagione del carbone, la delicatezza delle operazioni di “cottura” del legno, il loro pasto quotidiano, polenta annerita dalla polvere di carbone, i commerci e i rapporti con le popolazioni del villaggio, l’economia del carbone nel medioevo e nell’era della rivoluzione industriale, ma soprattutto i tanti mestieri che ruotavano attorno al carbone: i taglialegna, che vendevano le fascine o le cataste, gli artigiani, i mulari, ovvero gli “addetti alla logistica” di quei tempi. Approposito di mulari, in alcuni tratti di sentiero, notiamo delle ondulazioni del terreno. che altro non sono se non il segno ritmico del calpestio dei muli, si, perchè i muli in realtà non sono scomparsi del tutto, su sentieri così stretti e ripidi possono servire ancora ai tagliaboschi di oggi, per trasportare la legna tagliata, laddove i mezzi meccanici non arrivino più.
Ma con i mestieri del bosco non abbiamo finito! Lungo il sentiero troviamo pure delle piccole escavazioni cilindriche, resti di fornaci da calce, le calcare, usate per il processo di combustione lenta di blocchi di roccia calcarea, che da origine alla calce viva, usata nelle costruzioni tradizionali e prodotta da addetti specializzati.Il commercio della calce, si sovrapponeva e si intersecava a quello del carbone.
Pietra calcarea e bosco quindi, i due ingredienti fondamentali di questo paesaggio. Ma cen’è un terzo: l’acqua. Il fosso Galantina scorre più in basso in una stretta forra ombrosa, che raggiungiamo al termine del tratto in discesa del sentiero. A dire il vero al nostro passaggio il torrente è completamente asciutto, quindi entriamo comodamente nell’alveo e ci avviciniamo ai fabbricati diruti di un mulino in pietra, rimangono i resti delle macine, della camera dove si trovavano le turbine (o ritrecine) e il foro di uscita delle acque. I partecipanti si chiedono: “Ma, un mulino qui” ???? In effetti è strano in un luogo così impervio, eppure, ecco un’altra prova di come un tempo queste zone erano tutt’altro che desolate.
Riprendiamo il sentiero in salita in mezzo alla macchia da poco tagliata, troviamo erbe e cespugli cui diamo un nome, tenendo presente che anche la conoscenza e l’uso delle erbe spontanee costituiva un tratto basilare della cultura contadina di tutti i tempi – a parte, purtroppo, quello odierno - e della nostra identità. Nel medioevo poi questi boschi furono luogo di preghiera e di attività di monaci Benedettini. “Ora et labora” era il loro motto e il lavoro era lo sfruttamento delle risorse naturali, l’agricoltura l’allevamento e proprio la raccolta di erbe e i monaci erano profondi conoscitori delle erbe curative, edibili e medicinali. Incontriamo tra le varie specie, il ginepro comune (Juniperus communis L.), oggi usato come spezia per piatti di carne e minestre e nel medioevo come pianta propiziatrice e contro gli spiriti maligni (la farmacopea nel Medioevo si arricchisce notevolmente di riferimenti a significati religiosi), ma anche come disinfettante, detergente e come medicamento per la cura di tumori negli animali domestici; oppure l’Elleboro, con i suoi fiori verdi, non proprio evidenti ma molto eleganti. Parliamo qui di una pianta velenosa, utilizzata, sempre nel medioevo, per la cura della pazzia, dell’epilessia e del Ballo di San Vito.
Arrivati in cima al sentiero: l’apoteosi, la summa delle valenze di questa passeggiata. Acqua pietra e bosco si uniscono nella suggestione del Revotano, che si apre all’improvviso squarciando la macchia. Una vertiginosa dolina carsica, ovvero immane voragine di 250 metri di diametro per 80 metri di profondità, dovuta al crollo del tetto di una antica cavità, scavata, dentro al ventre della montagna nel corso di milioni di anni, per effetto del fenomeno carsico, ovvero lo scioglimento del calcare, CaCO3 in acqua in presenza di anidride carbonica. La sua vista, così improvvisa in mezzo al bosco ci procura un senso di leggera inquietudine, non sorprende che gli stessi sentimenti, nei nostri avi, abbiano potuto dare origine a racconti leggendari sull’origine di questa voragine.
Torniamo sui nostri passi, prima di rientrare al paese di Roccantica, ci fermiamo all’Eremo di San Leonardo, un eremo rupestre in una cavità su una parete rocciosa verticale, era un eremo benedettino collegato all’Abbazia di Farfa. Anche qui, pietra, acqua e foresta hanno creato il contesto per un’esperienza spirituale che iniziava con l’eremitaggio e l’isolamento, per adire ad una profonda comunione del credente con la Divinità e poi si risolveva nella vita comunitaria, fondata sul lavoro, come via di salvezza dell’anima, presso l’Abbazia o Cenobio. Guarda caso, qui in Sabina, i luoghi scelti per gli eremitaggi sono spesso cavità carsiche entro ampie selve e possiamo ipotizzare che all’epoca dei primi eremiti queste selve dovessero essere disseminate di imponenti alberi secolari, nonchè popolate da fiere di ogni tipo e quindi suscitare un’atteggiamento di timoroso rispetto (o più decisamente paura) per le forze della natura.
Non stupisce che i luoghi scelti dai monaci fossero già in precedenza luoghi di culto pagani, dei romani e dei sabini prima ancora, come nel caso dell’Eremo di San Michele Arcangelo, a pochi kilometri dall’Eremo di San Leonardo, che fu, in origine, un tempio dedicato alla dea sabina Vacuna, dea madre dei boschi, delle acque e dei raccolti e poi fu consacrato come santuario dedicato a San Michele. D’altronde analoga parabola ebbe il sito dove ancor oggi sorge la stessa Abbazia di Farfa.
Tornati al punto di inizio del cammino, concludiamo il nostro percorso spostandoci in macchina da Roccantica a Catino per un caffè e i saluti finali, prima però, diamo un’occhiata alla dolina carsica, del tutto simile al Revotano, sull’orlo della quale, i longobardi hanno pensato bene di costruire una loro Fara, ovvero un insediamento prevalentemente militare con funzioni di controllo e avamposto, di solito localizzato sui fronti avanzati di invasione o su luoghi di presidio strategici, che poi fu incastellata intorno all’anno mille con la costruzione di una rocca e di una imponente torre di 33 metri di altezza: la Torre di Catino appunto. Questo modo suggestivo e ingegnoso di utilizzare le forme del paesaggio carsico come luoghi di insediamento fortificato ci sembra un buon modo per chiudere il cerchio di questo cammino a cavallo tra geologia e cultura contadina.
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